Da Rasa ad Aristotele passando per Moreno
Il più antico trattato di drammaturgia indiana a noi pervenuto è il Nāṭyaśāstra («Trattato di drammaturgia», ca. 200-400 d.C.) attribuito a Bharata, autore semileggendario. In 37 capitoli e circa 5000 versi questo testo tratta nel dettaglio tecniche e convenzioni di composizione, recitazione, danza e musica. Nell’estetica e nella retorica della letteratura sanscrita il Rasa è il sapore, lo stato d’animo, il senso artistico, l’emozione estetica.
L’India, di conseguenza, aveva gia’ ben indagato il mondo delle emozioni, analizzandone i meccanismi d’insorgenza e catalogandone le conseguenze. Era così giunta a delineare le fasi del processo – soprattutto in vista della sua riproduzione in ambito artistico e in particolar modo teatrale – con notevole acume e in consonanza con molte concezioni della moderna psicologia del profondo. Secondo questa, le modificazioni dell’ambiente esterno o gli impulsi interni innescano precise sensazioni somatiche e reazioni neurovegetative: le emozioni. Se le emozioni persistono, si instaurano gli stati d’animo che possono tramutarsi in sentimenti, fenomeni psichici coscienti dovuti a fattori di ordine culturale, morale, affettivo, intellettuale, che colorano emotivamente le percezioni e influenzano il comportamento.
Secondo la visione indiana nove sono le principali emozioni, bhāva, e da esse scaturiscono altrettanti sentimenti, navarasa; la dinamica del loro insorgere è articolata in una serie di sfumature e risonanze e si dipana lungo un preciso procedere. Nella rappresentazione scenica l’artista riproduce attraverso un preciso linguaggio corporeo il sentimento prescelto con tale precisione psicofisica da indurre per risonanza (oggi diremmo per contagio emotivo) la stessa emozione nello spettatore; si realizza l’esperienza del rasa (succo, spremitura, quintessenza) non tanto dal punta di visto estetico quanto da quello più profondamente salvifico. La fruizione del rasa trasporta su un piano mistico e l’opera d’arte – poesia, pittura, musica, teatro, danza che sia – viene “goduta” in tutta la sue esperienza/essenza. La rappresentazione si trasforma in un evento generale e universale.
Il processo di “distillazione artistica” è lungo e complesso: l’artista percepisce un dato evento, ne risulta emotivamente coinvolto e sente insorgere dentro di sé uno stato d’animo che lo induce a riprodurre l’esperienza toccante che ha vissuto. Per farlo sceglie il linguaggio espressivo che più gli è congeniale, ma che comunque è sempre elaborato e codificato dalla tradizione e che proprio per questo traduce il vissuto emotivo individuale in una comunicazione universale, fruibile da tutti gli spettatori.
Il vincolo a determinate norme non soffoca l’estro creativo del vero artista, che traspare nella personale e attuale riproposizione di un patrimonio corale e antico, continuamente rivivificato dalla fede dei suoi interpreti.
Aristotele, invece, parlava di catarsi, il liberatorio distacco dalle passioni tramite le forti vicende rappresentate sulla scena dalla tragedia intesa quale mimesi, imitazione, della realtà, ne sottolinea l’effetto di purificare, sollevare e rasserenare l’animo dello spettatore da tali passioni, permettendogli di riviverle intensamente allo stato sentimentale e quindi di liberarsene.
Lo spettatore, attraverso la rappresentazione di vicende che suscitano forti emozioni, prova pietà per gli avvenimenti che travagliano i protagonisti del dramma e terrore all’idea che anche lui potrebbe trovarsi in situazioni simili a quelle rappresentate. La pietà e il terrore saranno risolti catarticamente nello spettatore nel momento in cui il dramma si scioglierà in una spiegazione razionale dei fatti narrati.
Una tecnica per avvezzarsi a sopportare i mali e il dolore che potranno colpire in futuro.
Di catarsi parlava anche lo psichiatra e fondatore dello Psicodramma Jacob Levi Moreno nel suo libro “Il Teatro della spontaneità”.
Il Teatro della Spontaneità si sviluppa intorno al 1910 e si basa sull’esperienza di Moreno nel parlare ai bambini nei giardini di Vienna e si concentra sulla recitazione degli impulsi improvvisati. Il focus di questo esercizio non era originariamente sugli effetti terapeutici dello psicodramma; questi sono stati visti da Moreno semplicemente come effetti collaterali positivi.
Levi Moreno negli anni venti fondò poi un gruppo teatrale che inscenava, al momento, le azioni drammatiche suggerite dal pubblico o da noti fatti di cronaca senza utilizzare copioni e sceneggiature. Nacque così il teatro della spontaneità.
La spontaneità è definita da Moreno come la capacità dell’individuo di dare una risposta adeguata ad una nuova situazione o una nuova risposta ad una vecchia situazione. Definisce tre tipi di spontaneità:
- spontaneità patologica – nuova risposta inappropriata;
- spontaneità stereotipata – risposta sì adeguata ma senza innovazione o creatività;
- spontaneità normale – risposta adeguata, nuova e creativa.
Per sviluppare tale processo occorre un ambiente adatto che, nello psicodramma, è dato dal gruppo; movimenti emozionali, sensoriali, cognitivi, motori che creano gradualmente un’atmosfera di fiducia ed empatia.
La prima caratteristica dell’atto creativo è proprio la spontaneità, la seconda è il sentimento della sorpresa e dell’inaspettato. La terza caratteristica, afferma Moreno, è la sua non-realtà: la non-realtà che cambia la realtà entro cui nasce. Se il concetto di tele è la reciproca empatia tra due persone, lo psicodramma si basa ed incoraggia essenzialmente questa corrente comunicazionale in cui il corpo e “lo stare insieme” è parte fondamentale.
Il conduttore “regista” di psicodramma dirige il lavoro del gruppo e del soggetto, è senza giudizio e aiuta ogni individuo ad esprimersi liberamente sia fisicamente che emotivamente permettendo di utilizzare tutti i suoi strumenti espressivi verbali e non-verbali. I membri del gruppo, all’occorrenza, possono diventare pubblico ritirandosi in un altro spazio e favorendo colui che sarà il protagonista. Colui che potrà anche scegliere tra il pubblico i vari Io ausiliari che daranno vita sul palcoscenico ai personaggi del suo mondo interiore.
Il terapeuta/regista ha sempre gli occhi vigili all’interno dei cinque strumenti fondamentali del lavoro psicodrammatico identificati da Moreno: la scena, il protagonista (soggetto), il regista (terapeuta), le classi ausiliarie, il pubblico.
La scena porta il nome di spazio terapeutico in cui tutto è importante, non solo gli astanti ma anche gli oggetti presenti che hanno il ruolo di punti di riferimento spaziali.
Durante una sessione psicodrammatica ci sono tre fasi distinte: riscaldamento, lavoro con il protagonista e partecipazione del pubblico.
La scena si svolge così come è nella mente del protagonista con il conduttore che interviene in modo appropriato per esplorare le diverse sfaccettature in modo che i sentimenti repressi come colpa, odio, rabbia possano salire in superficie. Si possono utilizzare e sperimentare nuovi comportamenti e atteggiamenti; la partecipazione del pubblico è la parte finale in cui avviene il feedback dell’esperienza appena vissuta.
La differenza con gli attori del teatro convenzionale (il cui ruolo è limitato alla ripetizione di un patrimonio culturale) è tutta racchiusa, quindi, nella spontaneità vera e viscerale che nell’attore professionista è a favore della spontaneità di un altro spirito. Nello psicodramma il dramma è, appunto, un dramma umano, quello cui si riferisce Euripide nel rappresentare l’uomo nelle sue dimissioni concrete e psicologiche.
Se per Freud era importante riconoscere la natura dei nostri desideri rimossi, per Moreno la fase cognitiva ha meno importanza in quanto è necessario immergersi nel nostro ambiente e integrarsi col mondo circostante attraverso un rapporto sociale che si svolga ad un ritmo crescente e trascinante.
“Io inizio dove lei finisce. Lei mette le persone in una situazione artificiale nel suo studio; io le incontro nella loro casa e nell’ambiente naturale. Lei analizza i loro sogni, io cerco di dare loro il coraggio di sognare ancora.”
Lettera di Moreno a Freud
Focusing.
Le emozioni sono fisiche e istintive. Esse sono state programmate nei nostri geni da molti, moltissimi anni di evoluzione. Sono complesse e comportano una serie di reazioni fisiche e cognitive (molte delle quali non sono ben comprese), e il loro scopo generale è quello di produrre una risposta specifica a uno stimolo.
Le emozioni sono gestite dal sistema limbico, il nostro centro di elaborazione emotiva.
Ciò significa che sono illogiche, irrazionali, e irragionevoli, perché il sistema limbico è separato dalla neocorteccia (posto letteralmente dietro), la parte del nostro cervello che si occupa dei pensieri coscienti, il ragionamento e il processo decisionale,
I sentimenti, al contrario, si sviluppano nelle nostre teste. Si tratta di associazioni mentali e reazioni a un’emozione che sono personali e si acquisiscono attraverso le esperienze.
L’emozione viene prima ed è universale.
Che tipo di sentimento poi diventerà varia enormemente da persona a persona e da situazione a situazione, perché i sentimenti sono modellati dal temperamento e dall’esperienza individuale.
Due persone possono sentire la stessa emozione, ma etichettarla con nomi diversi.
E’ tutta una questione di interpretazione.
Psicodramma.
Psicodramma deriva da “PSYCHE’” (psiche o anima) e ”DRAMA” (azione). E’ quindi quel metodo che consente di esplorare il mondo psichico attraverso l’azione.
Lo psicodramma è una terapia in gruppo che sprona la comunicazione e il confronto con gli altri. Mettere in scena i propri drammi porta il paziente a scaricare le tensioni e a liberarsi delle paure, manifestando la propria emotività che è spesso causa di blocchi e chiusure verso il mondo che ci circonda.