Il Teatro è una forma antichissima di espressione artistica.
La sua storia, in Europa, si sviluppa in Grecia ad Atene ben cinque secoli prima della nascita di Cristo, con quella forma d’arte che oggi conosciamo come “tragedia greca” e che ebbe origine dal Ditirambo, un rito in onore del dio Dionisio caratterizzato da musica, canto e danza.
Con un bel salto temporale, possiamo delineare che la novità di fine ottocento è quella dell’introduzione del regista che, in Italia, abbiamo solo nel 1932 con Silvio D’Amico (giornalista teatrale e funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione, e fondatore – nel 1935 – dell’Accademia Nazionale di Arte Drammatica esistente ancora oggi e a lui intitolata) il quale introduce un neologismo, una parola di nuovo conio che è, appunto, regista.
E con questa nuova figura, non si può non citare Stanislavskij il quale si rese conto che il compito del regista non era tanto sostituirsi o sovrapporsi agli attori, quanto piuttosto guidarli verso la migliore prestazione possibile. Egli riconobbe la centralità dell’attore all’interno della messa in scena, attribuendo alla regia un ruolo non solo di guida ma anche di aiuto e di supporto all’attore stesso. Il metodo (da lui chiamato anche “psicotecnica” si sviluppò in un lungo arco di tempo a partire dai primi anni del ‘900) si basa sull’approfondimento psicologico e sulla ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore, tale per cui l’esternazione delle emozioni del personaggio possa avvenire attraverso la loro interpretazione e rielaborazione a livello intimo da parte dell’attore.
Di conseguenza, è fondamentale, per Stanislavskij, il concetto di verità: l’attore non deve imitare, deve essere il personaggio, cioè deve viverlo.
Per far sì che questa verità venga percepita come tale viene data molta rilevanza all’insieme dei fatti e situazioni che si possono ricostruire a partire dal testo: ambientazione, passato e futuro del personaggio.
Una volta ricostruito questo sottotesto, l’attore deve ricorrere al magico se, cioè mettere se stesso nei panni del personaggio, domandandosi: “Se io mi trovassi nelle sue condizioni, come mi comporterei?”. Partire da se stessi vuol dire che non si può partire da ciò che non si è, ma tuttavia il proprio io non è un punto di arrivo, bensì solo un punto di partenza; non si tratta di riversarsi nel personaggio, ma è l’inizio di una gestazione che porta al parto di un altro.
Altro elemento fondamentale del metodo è la memoria emotiva: per esprimere le emozioni del personaggio l’attore deve trovare punti in comune con la sua vita, andare a ritroso e ricercare quei momenti che hanno provocato sentimenti analoghi a quelli del personaggio.
Questo processo è molto lontano dall’immedesimazione per cui l’attore scompare in virtù del personaggio. Qui si tratta di una simbiosi vivente tra vita dell’attore e vita del personaggio, che partecipano entrambi alla creazione di una terza vita.
Il novecento, comunque, è tutto un susseguirsi di idee e concetti con, tra gli altri, Antonin Artaud, grande visionario del teatro, Bertolt Brecht che elabora una nuova teoria teatrale: rivendica il carattere di finzione del teatro, per cui lo spettatore non deve immedesimarsi nelle vicende del dramma, ma, attraverso l’estraniazione, giungere alla piena consapevolezza di essere in presenza di una rappresentazione. Questo contribuisce, secondo Brecht, a far maturare nel pubblico una coscienza critica. Possiamo citare poi Carmelo Bene, esponente massimo della Neo Avanguardia italiana degli anni Sessanta e Settanta che punta tutto sul linguaggio non verbale anche se lui mostra una potenza di voce straordinaria.
A New York, nel 1959, abbiamo la presentazione del primo happening – avvenimento – che rifiuta tanto l’idea di palcoscenico quanto l’idea che tutti gli spettatori vedano la stessa cosa. Nello stesso anno abbiamo il primo importante successo del glorioso Living Theatre, fondato da Judith Malina e da Julian Beck.
L’happening è una forma di arte contemporanea che nasce ad opera di Allan Kaprow e si focalizza non tanto sull’oggetto ma sull’evento che si riesce ad organizzare. E’ una sorta di branca teatrale in cui i vari elementi alogici sono montati deliberatamente insieme ed organizzati in una struttura a compartimenti. Alla metà degli anni Cinquanta, Kaprow, partecipò alle lezioni di John Cage da cui riprese, appunto, l’idea di affidare al caso un ruolo determinante nella creazione artistica. Regina indiscussa dell’happening è certamente Marina Abramovic mentre, tra i pittori, possiamo senza dubbio annoverare Jackson Pollock con la sua tecnica dell’action painting.
«Il mio dipinto non scaturisce dal cavalletto. Preferisco fissare la tela non allungata sul muro duro. Sul pavimento sono più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del dipinto, perché in questo modo posso camminarci attorno, lavorare dai quattro lati ed essere letteralmente “nel” dipinto. È simile ai metodi dei pittori di sabbia indiani del west».